mercoledì 16 agosto 2017

«Mi puntavano la pistola e mi chiedevano di pregare per loro»

Don Angelo Treccani, il prete “ribelle” della Chiesa ticinese, racconta la grave crisi del Venezuela, dove da decenni, tra agricoltura e bambini abbandonati, segue un progetto diocesano

GAMBAROGNO - Un “ribelle” della Chiesa ticinese confrontato con la grave crisi del Venezuela. Don Angelo Treccani, 77 anni, cresciuto nel Malcantone, fa il missionario a El Socorro, a sei ore di macchina da Caracas, dove gestisce un’azienda agricola e una casa
di accoglienza per bambini abbandonati. In Ticino da amici, a Quartino (Gambarogno), racconta la discesa all’inferno del paese sudamericano, alle prese con la dittatura di Nicolas Maduro e con le rivolte popolari. «Negli ultimi anni sono stato rapinato ben quattro volte – dice – sono in Venezuela dal 1983. È una terra che non riconosco più. L’emblema di come l’egoismo umano possa rovinare tutto».
Le proteste contro Maduro durano da mesi, i morti sono a decine. Che idea si è fatto della situazione?«Se oggi siamo in queste condizioni, è anche a causa di come è stato gestito il Governo di Hugo Chavez. Lui era una persona intelligente, aveva buone idee. Ma applicate male. Tanto idealismo, ma poca sostanza. Distribuiva crediti a destra e a sinistra, sperando che la gente usasse questi soldi per fare investimenti, magari nell’agricoltura visto che il Venezuela ha terreni fertilissimi. Invece i giovani intascavano il denaro e si compravano le belle moto. Ognuno ha pensato per sé. La produttività si è fermata. E l’economia del paese è andata piano piano a rotoli».
Oggi i venezuelani fanno la fame…«Sì. E pensare che il Venezuela avrebbe tutte le risorse per autosostenersi. Invece si muore perché mancano i farmaci più elementari. Lo stipendio medio di un operaio è al massimo di due dollari al giorno. Calcolate che una Coca-Cola costa mezzo dollaro e un chilo di zucchero un dollaro…»
Tutta colpa di Chavez, dunque?«No. È stato circondato da persone sbagliate, che hanno pensato solo ad arricchirsi. Lui in fondo era un idealista. Dopo la sua morte è arrivato Maduro, che ha continuato a fare promesse senza poterle mantenere. Maduro ha perso la bussola. Vuole comandare da solo. E la gente è stufa. C’è molta incertezza. I paesi vicini chiudono le frontiere. Addirittura vengono annullati i voli aerei per il Venezuela. In questa terra c’era tanta allegria. Ora c’è solo miseria».
Lei porta avanti un progetto seguito dalla Diocesi di Lugano. Quanto risente di questa crisi?«Tantissimo. I bambini abbandonati sono sempre di più. E le mamme sole anche. Noi accogliamo una ventina di ragazzini. Li accompagno io di persona a scuola, col pulmino. Qualche tempo fa sono arrivati alcuni disperati. E ce l’hanno rubato. Mentre mi puntavano la pistola, mi chiedevano di pregare per loro, affinché cambiassero strada. Si sono portati via anche tutti gli attrezzi che usavamo per i campi. La povertà fa fare brutte cose».
Che rapporto ha con la terra che coltiva?«Intimo, bello. Lavoro con una decina di operai del posto. Coltiviamo mais, banane, meloni… Di tutto. L’idea iniziale del progetto era proprio quello di formare persone del luogo affinché potessero poi autogestirsi nell’agricoltura. Io ho deciso di restare in Venezuela, anche perché il clero ticinese per certi versi mi stava stretto».
In che senso?«Non è solo un problema ticinese. La verità è che la Chiesa è un po’ troppo istituzionalizzata. Dà tanta importanza alle regole e le usa per giudicare e dominare la gente. E poi è troppo ricca. Il gesto che la Chiesa dovrebbe fare per riavvicinare davvero i fedeli sarebbe quello di abbandonare la ricchezza. Non esiste che un prete viva nelle comodità. E poi, basta con le discriminazioni. La Chiesa dovrebbe accettare il diverso. Un cristiano che rifiuta l’altro perché è diverso non può definirsi cristiano. Prendiamo l’esempio dei gay. Sono stati esclusi per secoli. Per fortuna ora c’è un Papa che ci apre gli occhi su questo tema. Chi sono io per giudicare? Non ha tutti i torti».
Lei, prima di fare il missionario, è stato parroco in diverse località ticinesi. Che ricordi ha?«Belli. Fare il parroco è gratificante. Però a un certo punto, negli anni Settanta, sono andato in crisi. E ho chiesto al vescovo un congedo per andare a lavorare in fabbrica. Mi sentivo ipocrita a predicare la parola di Dio senza avere provato la fatica. Ho lavorato per sei mesi in una falegnameria. E per quattro anni in una fabbrica di tappeti per automobili. Poi ho deciso di lanciare un progetto per i tossicodipendenti, a Indemini, nel Gambarogno. Sempre legato all’agricoltura. Fino a quando, nel 1982, ricevetti una chiamata del Vescovo Ernesto Togni. Aveva un’idea per me».
Vale a dire?«Io non sono mai riuscito a vedere il prete staccato dall’impegno sociale. Lui sapeva di questa mia necessità. E mi propose di andare in Venezuela, appunto. Per formare e istruire famiglie di contadini. Poco dopo mi trasferii. Tornai solo per un periodo, tra il 1990 e il 2000, perché volevo stare vicino a mio padre malato. In quella parentesi fui parroco a Curio. Una bella esperienza, anche quella. Io non rimpiango niente».
Nell’immaginario collettivo il missionario è colui che converte nuovi popoli al cristianesimo. Si riconosce in questa definizione?«No. Io non converto nessuno. Sono i valori umani a contare. E i valori non appartengono ad alcuna religione. Io non ho mai fatto propaganda. Cerco di portare la mia testimonianza di fede. Questo sì. Ma senza imposizioni. Rispetto il musulmano come l’ateo. Al momento della nostra morte, non penso che saremo giudicati per la religione che abbiamo avuto, ma per quello che abbiamo fatto, per come siamo stati». Di Patrick Mancini

Nessun commento:

Posta un commento