“Io affermo che quando una nazione tenta di tassare se stessa per raggiungere la prosperità è come se un uomo si mettesse in piedi dentro un secchio e cercasse di sollevarsi per il manico.” Sir Winston Churchill

martedì 23 settembre 2025

Convivere con il DOC. Anzi, riderci sopra

"Altrimenti la mamma muore" non è solo il nuovo romanzo di Patrick Mancini: è una riflessione senza sconti sul disturbo ossessivo-compulsivo
Da Tio

CUGNASCO-GERRA - "Altrimenti la mamma muore" è il nuovo romanzo di Patrick Mancini. Pubblicato dalla ticinese Flamingo Edizioni e disponibile da oggi nelle librerie, nella nuova opera del giornalista (penna storica di Tio/20minuti, ma anche di Cooperazione) convivono due anime: il thriller, con un misterioso caso che viene svelato pagina dopo pagina, e il DOC, il disturbo ossessivo-compulsivo. Partiamo da quest'ultimo aspetto, che è ciò che rende a mio parere questo libro diverso da molti altri (e dagli stessi che Mancini ha già dato alle stampe in passato). Nella prefazione il dottor Michele Mattia, presidente ASI-ADOC (Associazione della Svizzera Italiana per i disturbi ansiosi, depressivi e ossessivo-compulsivi) loda il romanzo quale strumento per mettere in evidenza le complessità del DOC e così «affrontarlo, prevenirlo e curarlo». «Ho iniziato a scriverlo per ironizzare sui miei trip, estremizzandoli, anche se quelli descritti non sono i miei... Non pensavo di pubblicarlo, ma a un certo punto ho pensato che potesse essere utile. Prima di tutto, per dare un senso a un'esistenza: arrivi a 40 anni e passa, e ti rendi conto che metà li hai buttati via, sprecando energie a gestire questa situazione». Il libro, quindi, diventa un modo per... «Per dare un senso al tutto e magari sensibilizzare gli altri, aiutando qualcun altro che fa fatica a parlare del suo problema. Io, adesso, non faccio più fatica. Anzi, ci rido sopra, pur nella consapevolezza che non se ne andrà mai. È una sfida, da quando mi alzo fino a quando vado a dormire». A un certo punto ti scagli contro "il machismo di una società che condanna la fragilità". «Me la prendo con questa società finta, che penso non abbia ragione di esistere. Perché continuare a nascondere qualcosa che, alla fine, è umana?». Quando hai iniziato a scrivere il romanzo? «Nel 2021. Poi per un anno e mezzo l'ho lasciato lì. A farmi cambiare idea è stato un percorso di meditazione, che mi ha portato una nuova capacità di gestione delle emozioni. Mi sono detto quindi che poteva essere il momento giusto per riprenderlo in mano». Uno dei problemi che vive il paziente è il non essere capiti, mentre il Mostro si agita dentro di te? «Un grosso problema è la solitudine, come il sentirsi dire "tu non hai un vero problema". È un disturbo subdolo: non ho mai avuto problemi di rendimento scolastico o lavorativo, ma c'è una piccola parte di me - me ne sono reso conto negli ultimi anni, grazie alla psicoterapia - che continua a generare insicurezze. Si arriva spesso a traumi o situazioni vissute nell'infanzia, o nell'adolescenza». Domanda da profano: la compulsione ti porta davvero a credere che, se non si compie il rituale, "la mamma muore"? «Sì. E il primo traguardo è affidarsi a qualcuno che ti può aiutare e imparare a riconoscere quel meccanismo. Ora, nel 99% dei casi, lo blocco prima. Ma mi metto nei panni di un adolescente, che non sa niente della vita e si ritrova ad avere questi attacchi d'ansia. È naturale che pensi di essere pazzo, quando non lo è e ha solo una parte fragile che dovrebbe essere affrontata». La vicenda ha, per lunghi tratti, più i contorni dell'horror che del thriller. Sembra di precipitare in un incubo attraverso una spirale. L'hai fatto per far sperimentare a tutti il DOC, anche se solo per la lunghezza di un romanzo? «È inevitabilmente horror, perché quando il disturbo ti colpisce hai una sensazione di puro orrore. Il piano della realtà si mescola con la fantasia e crea un contesto angoscioso. Non spoilero il finale, ma lancio un ammonimento: il disturbo non sparisce del tutto nella vita; ciò che si può compiere è una maturazione che ti porta a gestirlo e a conviverci». È il tuo quarto romanzo: trovi che ci sia un filo rosso che lega i tuoi lavori? «Questo è decisamente staccato rispetto ai precedenti, è una cosa a sé». Tra i ringraziamenti spicca quello a... un cane. Perché? «Per una settimana ho fatto il dog-sitter, con questo cane che mi ha fatto impazzire, perché comandava lui. Giravo per Saint Moritz e gli parlavo tutto il tempo, come se fosse una persona. Invariabilmente si fermava in una strada, via Aruons, e stava fermo per 45-50 minuti. Non c'era verso di farlo alzare. Siccome le prime righe del libro le ho scritte lì, il nome del protagonista è diventato Nathan Aruons».

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